Eugenio Corti, vita e scrittura binomio inscindibile
Sulla scrittura di Eugenio Corti oggi pubblichiamo un intervento di Renato Ornaghi , ingegnere già noto come ideatore del autore del cammino di Sant’Agostino. Nella vita di tutti i giorni si occupa di consulenza per il risparmio e l ‘efficienza energetica in ambito industriale e civile. Ma il suo grande amore, non certo nascosto, rimane l’arte e la bellezza .
Mi è stato chiesto di commentare per il Cittadino un piccolo brano del Cavallo rosso. Che dire? Caschi il mondo se intendo rinunciare a questa splendida opportunità, la quale però a ben vedere è anche una non piccola responsabilità. Premesso che il Cavallo Rosso è un libro non spiluccabile in antologie e meno che meno riconducibile a sunti famigerati stile “libro condensato” del Readers Digest, ma che va assaporato nella sua integrale bellezza, mi rendo conto che per coloro che non l’hanno ancora letto il poter coglierne alcuni bagliori, alcune pregnanti schegge, può rappresentare un elemento importante per spingersi alla dolce fatica di iniziare a leggerlo.
Nel scegliervi un brano dal Cavallo rosso, tra le infinite alternative, ho allora optato per una pagina tra le più tragiche e rappresentative del libro di Corti, in quel capitolo lunghissimo che descrive con stile mitico e impareggiabile la ritirata italiana sul fronte russo del gennaio 1943. La scelta fatta, oltre che per lo stile alto e severo, è peraltro anche pro domo causa di Eugenio Corti premio Nobel. Mi sono infatti chiesto: quale potrebbe essere la più sintetica delle argomentazioni letterarie, la citazione di brano d’opera pur breve ma evidente che permetta di dimostrare ai giurati di Stoccolma che un grande scrittore del calibro di Eugenio Corti è degno di ricevere il Premio Nobel per la Letteratura? La domanda non è oziosa. Una delle motivazioni più forti a sostenere Eugenio Corti Nobel per la Letteratura è sicuramente la sua opera più celebre: Il cavallo rosso appunto, il nostro “Guerra e Pace”. Che peraltro, nelle sue mille e passa pagine non ancora tradotte in svedese (per quanto almeno mi consta) risulterebbe di difficile illustrazione a un giurato scandinavo che non l’abbia ancora conosciuto, e che – se proprio andrà bene – se lo leggerà per sunto.
Uno dei valori più alti di un opera letteraria, uno dei metri di giudizio e di merito che ritengo più preclari è proprio la capacità di quell’opera di spiegare il profondo legame che c’è tra la vita reale e il testo scritto. Questa è la vera magia della letteratura. Quale dunque è quel frammento del libro di Eugenio Corti che, meglio di ogni altro, può far percepire ai giurati svedesi fino a che punto letteratura e vita sono intrinsecamente avvinti, nelle pagine del Cavallo rosso? Dopo diversi lambiccamenti, ho scelto il breve passo del libro nel quale uno dei protagonisti del romanzo, Michele (quello che nell’opera più incarna secondo me la figura autobiografica dello scrittore Corti, il giovane personaggio che alla Università Cattolica viene inquadrato come “artista” dal Rettore Padre Gemelli) è fatto prigioniero e salva la propria vita grazie a un evento davvero miracoloso: la sua avventata e assurda citazione – sotto duro interrogatorio – di un verso d’opera di Victor Hugo.
Sarà davvero andata così a Eugenio Corti in Russia, si sarà egli davvero salvato grazie alla cruciale memoria di un grande classico della Letteratura mondiale? Salvo grazie a Victor Hugo? Io per pudore non gliel’ho mai chiesto, le poche volte che l’ho incontrato. E però in quel brano breve, intenso e tesissimo, in quell’interrogatorio tra un ufficiale russo e un povero cristo prigioniero italiano per il quale essere vivi e salvare la pelle dipenderà da poche sillabe di un verso declamate in stato quasi confusionale, vi trovo la congiunzione perfetta dell’opera Cavallo Rosso tra Letteratura e Vita, nel senso più alto del termine che queste parole possono rappresentare.
Spero davvero che i giurati svedesi possano leggersi e assaporare in svedese questo brevissimo brano. Che è la quintessenza del valore della letteratura: perché in fondo il brano di Corti ben ci ricorda che leggere e amare un libro può salvarti la vita. E non mi pare affatto poca cosa. In quelle poche righe, in quell’interrogatorio in lingua francese tra un russo e un italiano c’è tutta la cifra di Eugenio Corti, tutto il suo messaggio di scrittore e di uomo: la testimonianza dell’immanenza silenziosa ma presente di Dio nella vita umana, la follia di un destino che (letto con occhi umani) può assurdamente dipendere da una follia, da un nonnulla, l’essenza e la fratellanza degli esseri umani a discapito delle guerre e degli odi di parte, possibile grazie proprio al comune amore per una letteratura che affratella, il disperato attaccamento dell’uomo alla vita nonostante le sue assurde tragedie e sofferenze..
Per questo, per tutto questo amerò e rileggerò sempre fin che campo Il Cavallo rosso di Eugenio Corti. Ed eccovi – finalmente – il breve ma significativo brano di cui vi ho appena accennato.
L’ufficiale russo Laricev si rivolse in francese al prigioniero italiano, cambiando la domanda. «A che battaglione appartenete?» Questa sembrò a Michele una domanda consentita dalle convenzioni internazionali e rispose; «Volete sapere quale è il mio battaglione?» «Sì». E Michele, in francese: «Primo battaglione dell’Ottantunesimo Fanteria» La parola francese bataillon, detta e ripetuta, gli richiamò impensatamente da chissà quale ripostiglio della memoria un verso di Victor Hugo studiato a scuola, un verso che si riferiva alla battaglia di Waterloo, eppure si attagliava bene anche alla situazione presente. Così bene si attagliava, che Michele fece senza riflettere una cosa della cui assurdità si rese conto già mentre la faceva (fece una di quelle cose che si fanno in certi momenti risolutivi della vita soltanto perché Qualcuno ce le fa fare): recitò a bassa voce il verso in questione: «Le pàle mort» mormorò «mélait les sombres battailons.» Laricev rimase, com’è naturale, molto sorpreso, e per un certo tempo tacque; poi, con autentico sbalordimento del prigioniero, completò la citazione: «Waterloo, morne plaine… dans ton cirque du bois, de coteaux, de vallons, le pàle mort mélait les sombres… » non arrivò alla rima, temendo l’impressione che avrebbe potuto produrre sui suoi soldati. «Victor Hugo, è vero? Amate voi questo autore?» Michele non rispose, l’altro tacque a sua volta. I due giovani soldati si scrutarono a vicenda. Non erano, in apparenza, che due soldati mortalmente contrapposti l’uno all’altro: prima però erano due artisti, ciascuno con la sua diversa, enorme tradizione alle spalle.
(Renato Ornaghi, 29/07/10, Il Cittadino MB)