Eugenio Corti, il racconto per immagini
“Avanzando lenti uno a fianco dell’altro Stefano e suo padre Ferrante falciavano il prato”.
Se anche in letteratura il buongiorno si vede dal mattino, aveva grande prospettiva l’incipit di Il cavallo rosso di Eugenio Corti – monumento letterario che vide la luce ventidue anni fa e da allora, per i tipi delle Edizioni Ares, ha fatto seguire ben diciotto edizioni (più edizioni in spagnolo, lituano, romeno, francese, inglese e giapponese). Adesso, molti romanzi più tardi, in Catone l’antico la conferma è solare: nel senso che l’astro è ben alto nel cielo di questa narrativa e sotto la sua luce continuano a muoversi uomini solidi, a tre dimensioni.
Romanzi “cattolici”, quelli di Corti, nei quali è impossibile lasciare da parte la storia. Dal secondo conflitto mondiale alle reducciones in Paraguay, dall’ammutinamento della nave Bounty alle guerre puniche, la vicenda umana è sempre in primo piano con i suoi personaggi e le sue catene di eventi. E in questa storia, a posteriori, la scrittura aggiunge una dimensione verticale: lo scrittore infatti non soltanto reinventa un suo mondo narrativo, ma anche infonde nella descrizione una luce di compimento. E’ un punto decisivo, anche perché introduce un elemento di novità nella maniera – maniera culturale e in qualche modo anche tecnica – che lo scrittore adotta per dare spessore ai suoi romanzi. E’ l’argomento, per intenderci, che Alessandro Manzoni metteva alla base dei Promessi sposi e della sua nozione di verosimile applicata al romanzo storico: un argomento così arduo e per lui tormentoso che alla fine lo scrittore rinunciò addirittura a scrivere.
Oltre il “lieto fine”
Per Corti non si tratta però soltanto di “provvidenza”, ovvero un senno di poi trascendente che giustifica tutto, i buoni e i cattivi, i vivi e i morti. Ciò che egli intende per compimento è un progetto attivo, un disegno che doveva realizzarsi e si è attuato con la cooperazione, libera ma spesso inconsapevole, di tutti gli uomini, grandi e piccoli, che vi hanno preso parte. Il compito dello scrittore consiste nel riconoscere un particolare progetto nella storia e ridargli vita, mostrarlo attraverso la reinvenzione letteraria, facendone un caso emblematico (è il caso di questo Catone); oppure – ed era il caso del Cavallo rosso – percorrere la strada inversa, che dal susseguirsi degli eventi sale al riconoscimento del progetto.
Sicché Corti non la pensa come Manzoni. Per lui il verosimile non è prendere due sconosciuti come strumenti e far sì che loro tramite il bene trionfi su tutto. E’ illuminare ciò che è accaduto, comunque sia andato, con la luce penetrante della comprensione, lasciando che sia la realtà a brillare sotto i raggi di quel sole. Memorabile, a questo proposito, in coda alle mille e più pagine del Cavallo rosso, la morte improvvisa, imprevista, assolutamente inattesa dal lettore, dell’eroina femminile, Alma, che – diversamente dalla Lucia manzoniana – nella pagina finale del romanzo non ci abbandona per vivere felice e contenta ma mostra nella sua pelle che la vita e il successo, quando li si guardi con occhi non limitati, sono più che non la ricerca terrena del “lieto fine”.
Qui, ora, abbiamo Marco Porcio Catone, l’Antico o il Censore, e la Roma trafelata di un’epoca dove crescere significa scontrarsi. Questo a sua volta significa decidere che cosa tenere e che cosa abbandonare, come chiunque è tenuto a fare quando viene avvisato dell’imminenza di una catastrofe nella casa dove abita. Catone è la memoria storica della civiltà. E, con i suoi pregi e i suoi difetti, egli si schiera per la sopravvivenza contro la dissoluzione: per lui infatti “i maggiori” non sono soltanto quelli che vennero prima cronologicamente, bensì coloro che hanno fondato la nazione e dunque il riferimento esplicito di chi voglia mantenerli in vita.
Personaggi, non attori
Catone è un uomo che, coltivando questi princìpi, attraversa egli stesso la parabola esistenziale che lo vede passare da giovane a vegliardo, da sconosciuto ad autorevole e possessore di cariche pubbliche. Frattanto attorno a lui si svolgono momenti decisivi come le guerre puniche, lo scontro con Annibale. Corti tutto questo sceglie di mostrarcelo, come altre volte, attraverso la tecnica del “romanzo per immagini”, cioè una scrittura che mutua dal cinema la capacità di stacchi subitanei e piani distinti, dove i dialoghi sono in rilievo e le descrizioni compongono un secondo livello, più meditativo, come l’indugiare dell’obiettivo che non s’avvede di essere osservato. Qui sta la differenza principale fra il “romanzo per immagini” e una sceneggiatura cinematografica: quelli che si muovono sul proscenio cortiano sono personaggi e non attori.
Non sono parti che nascono per essere recitate, bensì uomini e donne che vivono la loro vita entro il “progetto” che non conoscono. Ma lo scrittore antivede e adegua i suoi “movimenti di scrittura”, quasi la penna fosse appunto un obiettivo.
A riprova di questa consapevolezza d’autore rispetto al soggetto stanno i “medaglioni” dedicati ad Annibale e a Scipione, che integrano la narrazione per completare il quadro informativo del lettore; e, sembrando didascalici, sono invece un’invenzione da romanziere delle più progettuali e delle più immaginifiche, introducendo nel racconto qualcosa, che per richiamare paralleli tecnici da altre arti, potremmo definire a metà fra un contrappunto e un controcampo.
Anche per questo – e per il maturare di una tecnica innovativa nel susseguirsi delle prove – i molti lettori che amano Corti (quorum ego) troveranno che questo più recente “romanzo per immagini” è rifinito e brillante più che mai.
(Giuseppe Romano, Il Domenicale)