Incisivo come Masaccio
Criticò il neopaganesimo e l’ateismo delle ideologie di morte del secolo breve. Non era né un utopista né un conservatore ma un saldo e nobile intellettuale
Quando, nel 2000, a Eugenio Corti fu dedicata l’edizione tenutasi quell’anno del Premio internazionale di cultura cattolica, per lui, al suo nome — che nella sequela di quel riconoscimento veniva dopo Adriano Bausola, Augusto Del Noce, l’editore Bompiani, il cardinale Ratzinger, per non dire d’altri — venne evocato un altro grande alloro: il Nobel.
A Corti (morto il 4 febbraio all’alba dei 93 anni), alla sua figura morale, alla sua carriera di scrittore e di saggista, a quelli che nel lontano frangente erano i suoi imminenti ma non proprio incombenti ottant’anni, il mondo dell’intelligenza cattolica, ma non solo, si inchinava, riconoscendone il magistero assieme all’esito di avere quanto a sé restituito alla letteratura italiana del secondo Novecento la sua funzione e il suo ruolo di scandaglio del cuore umano per giungere, attraverso l’analisi e la rappresentazione di caratteri, idee e sentimenti, alla comprensione e alla valutazione delle vicende storiche.
Celebrato per la sua lotta al neopaganesimo moderno, e in particolare all’ateismo armato delle ideologie di morte del secolo breve, con il filo conduttore del Vangelo e per traguardo il regno di Dio, Corti non era né un utopista né un conservatore, ma un saldo e nobile intellettuale, narratore, saggista, drammaturgo.
Predomina, nella sua biografia creativa, il romanzo-poema Il cavallo rosso (del 1983), tenuto a battesimo dalla Ares, l’audace editoria cattolica che lo proponeva al mondo dei lettori contemporanei e futuri (una ventina di edizioni con traduzioni in otto lingue) come cospicua sintesi storico-etica, civile e morale, culturale, umana e psicologica di quasi quarant’anni di vicende nazionali e continentali.
Uno dei pochi casi letterari dei nostri tempi capaci di rovesciare la cronaca in evento da memoria. Impegnando se stesso e i suoi giorni, giocando la propria creatività al tavolo del testo oltre che della vita e al rischio della storia, Corti ha guardato soprattutto ai momenti di guerra, coinvolgendo il suo personale impegno nella trincea dei tanti, in quella plurima calligrafia di sangue, di miseria e di stenti che ogni conflitto porta con sé.
Ma prima del Cavallo rosso, lo scrittore brianzolo aveva iniziato a costruire la sua bibliografia con I più non ritornano (1947), diario di guerra sul fronte russo, libro dalla cruda intensità drammatica e dalla spoglia severità della prosa: racconto bellico in cui, tuttavia, fioriscono bontà e nobiltà umane, e fede nell’eterna provvidenza.
Accanto a questi due poderosi titoli, non mancano prove altrettanto in grado di tenerne il livello.
L’esperimento comunista, ad esempio (libro composito e nato da scritti diversamente datati), che espone con chiarezza e senza luoghi comuni, le ragioni per le quali nei regimi dell’est (Russia, Cina e Indocina) non è stata realizzata la società marxista, anzi, nessuna società, a partire dalla pratica del cosiddetto socialismo reale, allo sterminio dei contadini kulaki. Così come il Processo e morte di Stalin, testo che circolò clandestinamente in Russia mentre da noi veniva denigrato dalla stampa rossa.
Il 1994, poi, è l’anno di Gli ultimi soldati del re, storia di uomini che pur inquadrati nell’esercito regolare combatterono con gli Alleati contro i tedeschi, vicenda di guerra nient’affatto conosciuta come meritava, tanto importante in quanto si trattava di rischiare, oltre la patria la coscienza, oltre la vita la dignità.
Pochi ricordano che Eugenio Corti ebbe a suo tempo il consenso critico di Benedetto Croce, ma molti si rammaricano che non riscosse la rispondenza dell’editoria di parte, pur avendo per sé un numero ingente di lettori.
Come accadde con la sua nuova interpretazione dell’ammutinamento del Bounty in L’isola del Paradiso (2000), non un libro d’avventure o di esotico folklore, ma una sorta di contre-Rousseau contro l’idea dell’uomo come essere fondamentalmente buono (vero è che nasce all’ombra del peccato originale).
Come infine accadde nel 2005 con Catone l’antico, dove dei grandi del passato Corti traduce eventi e sentimenti in una letteraria rianimazione quasi visiva, per immagini, come lui stesso diceva. Con la padronanza strutturale e tematica che si direbbe di un Tolstoi e, per converso, la rupestre incisività di segno che ci ricorda un Masaccio, Eugenio Corti sarà sempre presente per il complesso della sua intensa dedizione alla scrittura, per il suo specchiato umanesimo, per la sua fede religiosa («che non è un merito — disse — ma un dono»). Testimone di una “cattedrale” di libri, la sua personalità si afferma nel panorama assai evasivo della produzione corrente, dei tanti sterili esperimenti dell’editoria d’oggi.
(Claudio Toscano, 07/02/14, L’Osservatore Romano)