La guerra dal di dentro
L’ha vista dall’interno del Secondo conflitto mondiale, poi l’ha descritta nel famoso Il cavallo rosso. La guerra nella riflessione di un grande scrittore cattolico. Intervista a Eugenio Corti
Lui la guerra l’ha fatta, e l’ha anche raccontata. Anzi, quasi quasi si può dire che l’ha fatta proprio per poterla raccontare… O – almeno – così spiega in questa medesima intervista Eugenio Corti: il grande scrittore brianzolo, recentemente novantenne, che ha legato in modo indelebile il suo nome appunto a una fluviale epopea bellica, quella de Il cavallo rosso.
Dove si narra, sotto spoglie romanzesche e autobiografiche, della partecipazione dell’autore alla spedizione fascista in Russia e alla conseguente disastrosa, epica ritirata del gennaio-febbraio 1943.
E non a caso il “cavallo rosso” del titolo deriva proprio dall’immagine che l’Apocalisse usa per designare i disastri della guerra: “Allora uscì un altro cavallo, rosso fuoco. A colui che lo cavalcava fu dato potere di togliere la pace dalla terra perché si sgozzassero a vicenda e gli fu consegnata una grande spada” (Ap 6,4).
Professor Corti: ma dopo quello che ha vissuto in Russia, non è diventato “pacifista”, almeno un po’?
Io ho sempre sostenuto una posizione di base: la guerra e la violenza non risolvono i problemi, semmai li accrescono e li complicano. Questo è a mio parere l’atteggiamento fondamentale che il cristiano deve tenere.
Tuttavia in una situazione di violenza al credente sono date diverse possibilità di risposta. La più radicale, eroica direi, è quella del santo che sceglie di non rispondere alla brutalità e si lascia uccidere senza difendersi, per non replicare alla violenza con la violenza. Si tratta di una decisione di altissimo valore, ma che secondo me può essere attuata soltanto quando si sia liberi di subirne le conseguenze da soli, ovvero se non esiste un dovere nei confronti del prossimo. Quando invece sussiste una responsabilità di difesa verso terzi, c’è anche il dovere di resistere alla violenza.
In che modo?
La risposta normale, razionale, alla violenza subita è cercare di impedire all’aggressore di esercitarla, magari uccidendo altre persone. Difendere i deboli e salvare i propri diritti evitando di mettersi nelle mani del violento. Per questo bisogna essere sempre pronti a resistere all’azione malefica e ingiusta, pur sempre nei limiti della tolleranza e della civiltà cristiana.
Niente “porgi l’altra guancia”, insomma…
Il mio ideale è quello dei cavalieri erranti nel Medioevo: chi era in grado di maneggiare le armi offriva il proprio braccio al bene e alla verità, per combattere i torti e far trionfare la ragione e la giustizia. Di più: il senso dell’onore imponeva a qualunque cavaliere, quando aveva abbattuto il nemico, di non infierire ma di tendere la mano per farlo rialzare. Questo è il modo migliore di fare una cosa brutta come la guerra, mantenendola cioè sul piano dell’umanità.
Ma esiste davvero un’”umanità” nella guerra?
Ripeto: la guerra è sempre una violenza. Tuttavia dobbiamo accettare la sua presenza nella storia dell’uomo. Nel primo millennio del cristianesimo, per esempio, c’è stata un’età che sono solito definire “teocentrica” – quando dominava una visione della realtà che aveva Dio dal centro – durante la quale era possibile ricorrere alla mediazione della Chiesa per evitare le minacce di conflitto.
Il Papa aveva facoltà di ascoltare le due parti in lotta e dirimere la controversia consegnando il vessillo di San Pietro a chi aveva ragione. E’ capitato anche (sebbene senza successo) nel conflitto che ha segnato la sorte dell’Inghilterra e sfociò poi nella battaglia di Hastings del 1066; gli angli e i sassoni che avevano occupato l’isola si scontrarono per questioni dinastiche con i normanni di Guglielmo il Conquistatore, cui il Papa aveva già dato ragione.
Ma proprio dopo la vittoria normanna si verificò un fatto memorabile: i vincitori stessi si resero conto di aver comunque commesso un grave disordine, che andava in qualche modo risarcito, e dichiararono che quanti avevano ucciso un nemico avrebbero dovuto fare penitenza e digiunare per 5 anni.
Come dire che la guerra non è mai “giusta”, accettabile fino in fondo per un cristiano…
Ho avuto modo nella mia vita di vedere barbarie veramente terribili, scatenate dalle due ideologie più distruttive del Novecento: il comunismo, che ha generato i maggiori stermini della storia con oltre 160 milioni di morti, e il nazismo, che non ha avuto tempo di fare un numero superiore di vittime solo perché è durato di meno.
Ma era ancor più luciferino, come ho avuto modo di accorgermi già sulla strada della Polonia, quando ho constatato di persona che punto poteva spingersi l’ideologia di Hitler: non era quel che si pensava in Italia, una specie di fascismo più duro, alla tedesca! I nazisti erano di una bestialità tale che ho subito scritto a mio padre di mandare il mio stipendio militare in Vaticano, perché lo destinassero ai polacchi; solo che la mia lettera fu intercettata dalla censura e così sono finito sotto processo…
Ecco, siamo arrivati alla campagna di Russia: cristianamente parlando si trattava di una “guerra ingiusta”, un’invasione volontaria e ingiustificata…
Preciso subito che sono partito volontario, ma ne spiego anche il motivo. Ero stato chiamato alle armi con gli altri studenti del 1921 e, una volta arruolato, per me era chiaro che dovevo fare il mio dovere fino in fondo: se in guerra uno non compie la sua parte, infatti, poi sono obbligati a farla gli altri e magari ci rimettono la pelle…
Insomma, ero deciso a comportarmi in modo degno ma certo non avrei mai chiesto di andare in Russia, ad ammazzare il prossimo, e tanto meno come alleato dei nazisti. Senonché i tedeschi hanno cominciato a vincere dappertutto e, quando hanno attaccato l’Urss, mi sono convinto che avrebbero conquistato Mosca in poco tempo, facendo cadere il comunismo.
Io ero da pochi mesi caporale d’artiglieria a Piacenza e per me era importantissimo vedere quella dittatura, perché fin da ragazzo volevo scriverne! Per cui mi dissi: vado a vedere il comunismo prima che scompaia…
Così è stato, anche se l’esperienza non si è limitata ai “rossi”: annotavo infatti su due quadernetti tutte le malefatte che ho visto compiere sia dai nazisti, sia dai sovietici; quelle note erano la cosa più preziosa che avessi, ma purtroppo ho dovuto distruggerle durante la ritirata, quando pensavo che non sarei sopravvissuto.
E dopo tutto questo non la sfiora l’idea che era meglio fare magari l’obiettore di coscienza?
No. Ripeto: se ciascuno non fa la sua parte, un altro è per forza costretto a sostituirlo. Il cattolico coerente deve adoperarsi affinché la guerra non scoppi mai. Ma, una volta che gli eserciti sono entrati in azione, non si può sottrarre. Ognuno deve portare il suo carico.
Un altro esempio: quand’ero in linea come osservatore d’artiglieria per dirigere il fuoco dei miei cannoni dalle retrovie, mi sono immediatamente reso conto che – se i colpi non fossero stati ben piazzati – la nostra fanteria sarebbe stata fatta a pezzi dai russi.
Per questo ho cercato di combattere con la maggior efficacia possibile, anche se ero fiero avversario dei nostri alleati di allora: i nazisti.
Si tratta di un triste dilemma, comunque. E dimostra che guerre “pulite” non ne esistono.
Nemmeno quelle che oggi vediamo intorno al Mediterraneo e nel Medio Oriente. Chi ha ragione e chi ha torto? Gli uni e gli altri, senza distinzione. Ha ragione Israele a sentirsi assediato e a difendersi, per esempio, così come hanno ragione i palestinesi a volere il loro spazio nella “terra promessa” degli ebrei. E speriamo solo che il conflitto, con i sommovimenti attuali del mondo arabo, non diventi ancora peggiore.
(Roberto Beretta, giugno 2011, Il Timone)