Agli inizi di febbraio 1941, Corti si presenta alla caserma del Ventunesimo reggimento artiglieria divisionale a Piacenza, per un primo addestramento di sei mesi; seguiranno altri sei mesi alla Scuola allievi ufficiali di Moncalieri (To), dove diventa sottotenente.
Nel frattempo inoltra la richiesta di essere destinato al fronte russo: “Avevo chiesto di essere destinato a quel fronte per farmi un’idea di prima mano dei risultati del gigantesco tentativo di costruire un mondo nuovo, completamente svincolato da Dio, anzi, contro Dio, operato dai comunisti. Volevo assolutamente conoscere la realtà del comunismo; per questo pregavo Dio di non farmi perdere quell’esperienza, che ritenevo sarebbe stata per me fondamentale: in questo non sbagliavo. Come il personaggio di Michele ne “I cavallo rosso”, sono riuscito a entrare nel primo decimo della graduatoria al termine della Scuola ufficiali, ottenendo così il diritto di scegliere il reparto a cui essere assegnato. Ho scelto un reggimento che si trovava al fronte russo“.
Corti, alla fine, la spunta e parte per la Russia.
“Ho raggiunto il fronte agli inizi del giugno 1942. Per un mese il fronte non si è mosso, poi c’è stata la nostra grande avanzata dal Donez al Don, cui hanno fatto seguito i mesi di stasi. Il 16 dicembre ha avuto inizio l’offensiva russa sul Don e il 19 la nostra ritirata: quella sera stessa il mio corpo d’armata si è trovato chiuso in una sacca. Ci era arrivato l’ordine di lasciare il Don senza che fosse stato distribuito il carburante per gli automezzi; abbiamo, perciò, dovuto abbandonare tutto il materiale, senza poter salvare un solo cannone, né le tende e neppure i viveri“.
Questi sono i giorni più drammatici della vita di Corti: i ventotto giorni della ritirata, magistralmente narrati ne I più non ritornano. Solo la sera del 16 gennaio riescono ad uscire dall’accerchiamento russo pochi superstiti della massa di uomini che aveva mosso dal Don.
“Dopo circa una settimana sono stato caricato su un treno-ospedale (si trattava, in realtà, di carri bestiame “attrezzati a ospedale”, un vero disastro…); noi eravamo praticamente tutti fuori uso: ci caricavano senza neppure visitarci. Finché stavo nella sacca mi sentivo abbastanza bene, ma dopo esserne uscito mi ha preso una forte febbre, che è continuata nei giorni successivi, con fortissimi dolori alle articolazioni delle braccia (a causa delle notti passate sulla neve, a venti, trenta gradi sotto zero…). Ho trascorso una settimana nell’ospedale di transito di Leopol, Polonia; poi tre settimane di degenza all’ospedale “Emma” di Merano (un grand hotel trasformato), dove mi hanno curato il reumatismo articolare e le febbri, in seguito alle quali si era anche sviluppato un soffio al cuore“.
Insomma, Corti fisicamente può ritenersi fortunato delle condizioni in cui è uscito dalla sacca: nell’animo però l’esperienza lo ha marchiato a fuoco:
“Nelle prime settimane dopo il rientro, certe notti cadevo in preda a incubi; credevo di essere ancora nella sacca. Vaneggiavo al punto che mia madre è venuta a dormire per qualche tempo nella mia stanza“.
Il 26 luglio 1943 rifiuta la licenza che i medici dell’ospedale di Baggio volevano accordargli per le condizioni di salute, sostenendo: “Sono sottotenente e devo fare la mia parte: se c’è da sostenere un’ultima difesa, non è decente che io la lasci sostenere solo ad altri“.
Rientra in caserma a Bolzano, viene poi trasferito a Nettunia, da cui, dopo l’8 settembre, si dirige verso il sud a piedi, in compagnia dell’amico Antonio Moroni, per riunirsi all’esercito regolare. Queste vicende, e tutte quelle riguardanti la guerra di liberazione, sono narrate ne Gli ultimi soldati del re. Dopo un periodo nei campi di riordinamento, Corti entra volontario nei reparti nati per affiancare gli Alleati nella liberazione dell’Italia.
“Non avevamo munizioni e i piedi ci uscivano dalle scarpe rotte. Al sud siamo rimasti tutto l’inverno ’44/45, facendo addestramento sui materiali inglesi. Nel febbraio/marzo del ’45 siamo tornati al fronte; poi abbiamo partecipato alla battaglia per lo sfondamento della linea gotica, che è stata travolta il 20 aprile. Sono rimasto alle armi fino a settembre. Inizialmente siamo stati di presidio in Veneto, poi in Trentino, poi in AltoAdige. Erano giorni in cui la popolazione di lingua tedesca avrebbe voluto staccarsi dall’Italia. […] In tale situazione, vivevamo in costante pericolo di una ribellione che, per fortuna, non c’è stata: anzitutto perché i Sudtirolesi (o Altoatesini) erano molto stanchi della guerra, poi perché sono, per natura, non portati alle chiassate“.
(I dati riportati in questa pagina e le citazioni delle parole di Eugenio Corti sono tratti da: Paola Scaglione, Parole scolpite. I giorni e l’opera di Eugenio Corti, Edizioni Ares, 2002)